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Recensione dell'opera I Masnadieri di Giuseppe Verdi dal Teatro Regio di Parma

William Fratti, 08/11/2013

In breve:
Dopo quarant'anni dalla sua ultima rappresentazione, torna a Parma I masnadieri, opera degli anni di galera purtroppo poco rappresentata, ma ingiustamente. Il dramma lirico, scritto per Her Majesty's Theatre, è chiaramente un esempio tipico del Romanticismo e non solo per il libretto di Andrea Maffei, tratto da Friedrich Schiller. La musica e i personaggi guardano ai lavori precedenti, come Nabucco, Ernani, Giovanna d'Arco, Attila e il contemporaneo Macbeth, ma presagiscono anche il futuro de Il trovatore e La traviata.


A questa linea romantica appartiene anche il nuovo allestimento firmato da Leo Muscato, composto da un solo ed efficacissimo impianto scenico di Federica Parolini – anche se l'eccessiva pendenza, pur rendendo lo spettacolo visivamente migliore per il pubblico, mette in seria difficoltà gli artisti – e dalle luci altamente suggestive di Alessandro Verazzi, che richiamano ambientazioni gotiche e romanzesche, ben poco realistiche, ma in verità perfettamente in linea con la vicenda. Peccato che l'invenzione scemi proprio nel finale, con la creazione di un'ambientazione incomprensibile, in cui spiccano enormi alberi appesi a mezz'aria. Contribuiscono alla riuscita della messinscena i pregevoli costumi di Silvia Aymonino. Ma al di là dell'effetto visivo, ciò che piace nel lavoro di Leo Muscato sono la gestualità e i movimenti dei personaggi, solisti e coristi, che raccontano la storia di Schiller – che qui sembra anticipare Poe – attraverso la parola, gli sguardi, le espressioni, i cenni e le azioni, in un continuo movimento che non annoia mai, ma che al tempo stesso non risulta essere nemmeno eccessivo. 

La brava Filarmonica Arturo Toscanini dipinge il dramma con suoni limpidi e puliti, guidata da Francesco Ivan Ciampa che mantiene saldo il vigore verdiano, lasciandosi andare a qualche momento più lento che in taluni casi aiuta ad intensificare il pathos. Eccellente il preludio col violoncello di Diana Cahanescu.

Roberto Aronica veste i panni di un protagonista eroico che potrebbe tranquillamente fare il paio con Ernani. L'intonazione e la precisione musicale sostengono una voce ben impostata in avanti, brillante e squillante. Solo i piani e i colori più delicati sono sacrificati in questa impostazione così spinta, ma è tutto così omogeneo e ben amalgamato che se non si leggesse lo spartito, non ce ne si renderebbe conto. Ciò che davvero importa è che il personaggio di Carlo è interpretato con intensità e che la voce di Aronica trasmette forti emozioni.

Aurelia Florian è una brava e giovane cantante, ma non è adatta a vestire i panni di Amalia. Partendo dal presupposto – contrariamente a quanto sostengono tanti melomani – che non esistono un timbro e un colore pensati dal Maestro, ma che la voce verdiana risiede nell'accento e nel fraseggio in grado di far vivere un personaggio all'interno di una scrittura, ogni artista in grado di sostenere comodamente una tessitura, indipendentemente dalla tinta, può reggere un ruolo del Cigno di Busseto. Molto del lavoro del giovane Verdi risiede indubbiamente nel belcanto, ma con la forte aggiunta della componente drammatica e ciò vale anche per la parte di Amalia, scritta per un soprano drammatico di agilità. Aurelia Florian, nell'eseguire questa parte troppo pesante per le sue possibilità, non riesce ad eccellere, dovendo rallentare per trovare appoggio nelle numerose agilità ed indebolendosi nei passaggi più bassi. Da notarsi anche che, ad ogni attacco, per pochi istanti la sua voce pare stimbrata, o le sue corde non perfettamente chiuse e si ha la sensazione di un piccolo vuoto,anche se non si capisce bene quale ne sia la causa. Ad ogni modo il soprano riesce comunque a mettere in mostra le proprie qualità, a partire dai bellissimi e pregevoli filati naturali, fino al sapiente uso dei cromatismi. Sarebbe interessante riascoltarla in una parte più lirica, come Medora o Desdemona.

Damiano Salerno è un Francesco davvero eccellente. Forse la sua voce non è così potente come ci si aspetta solitamente da un baritono verdiano, ma il fraseggio, l'accento – prima drammatico, poi patetico, infine delirante – l'uso della parola, oltre all'omogeneità della linea di canto, alla musicalità e alla brillantezza fanno di lui un bravissimo interprete, con una resa del personaggio sinceramente ben riuscita.

Anche Mika Kares, nel ruolo di Massimiliano, lascia la sua impronta più che positiva sul palcoscenico di Parma, con la sua vocalità piena e corposa, la sua nobiltà d'accento e la sua capacità di rendere il vecchio reggente decaduto.

Antonio Corianò sa eseguire con grande perizia la parte di Arminio, mai protagonista, mai comprimario, ma sempre presente, a cui si richiede un volume adeguato – soprattutto per il quartetto conclusivo di primo atto – una buona capacità di fraseggiare e una musicalità tale da non rendere mai piatti i suoi numerosi recitativi.

Lo stesso vale per Giovanni Battista Parodi nelle vesta del pastore Moser. Il ruolo è breve, ma importante per la resa della bellissima scena in cui Francesco chiede il perdono, ma gli viene negato. Parodi lo esegue col giusto piglio, giustamente autoritario nella resa vocale e nel personaggio.

Conclude l'adeguato Enrico Cossutta nei panni di Rolla.

Validissima, anche scenicamente, la prova del Coro del Teatro Regio di Parma diretto da Martino Faggiani, coadiuvato da mimi molto bravi.

 

 
 
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