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Recensione opera Aureliano in Palmira al Rossini Opera Festival di Pesaro

William Fratti, 03/09/2014

In breve:
Pesaro - Recensione dell'opera lirica Aureliano in Palmira di Gioachino Rossini in scena al Rossini Opera Festival di Pesaro il 18 agosto 2014


Il lavoro di revisione critica svolto dalla Fondazione Rossini, allo scopo di riesaminare e ripresentare al pubblico odierno l'intera opera rossiniana, sta giungendo al termine e proprio in occasione dell'allestimento di Aureliano in Palmira – da valutarsi come una vera e propria prima mondiale, considerata la quantità di musica ritrovata e mai eseguita in precedenza, se non ai tempi del compositore – le aspettative erano molte, soprattutto in vista del ritorno a Pesaro di Mario Martone, già autore di spettacoli di grande successo.

Purtroppo il celebre regista napoletano non è all'altezza di sé stesso. La causa potrebbe ripiegarsi principalmente nella limitatezza delle risorse economiche a disposizione, ma ciò non significa che un professionista del suo calibro debba ridursi al risparmio da spettacolo da oratorio, senza invece inventarsi soluzioni diverse e che possano lasciare uscire il suo vero livello artistico.

Registicamente il coro è da censurare: in molti sbagliano o non coordinano i pochi movimenti a loro disposizione, oltreché essere vestiti in maniera evidentemente scadente; un migliore risultato si sarebbe ottenuto con l'uso del coro alla greca. Labirinti in scena se ne sono già visti a iosa, senza considerare che questo, costituito di stoffa, è probabilmente fono assorbente, abbastanza brutto da vedere e inutile allo svolgimento di una vicenda che di labirintico non ha nulla.

La ricostruzione delle due strutture in proscenio lascia intravedere la consueta abilità di Sergio Tramonti, ma ci si domanda il motivo per cui occorra spostare la scena a ridosso dei palchi – col palcoscenico completamente vuoto – nascondendosi alla vista di quasi la metà del pubblico. Se la vera trovata di regia risiede nella messinscena del fortepiano e del violoncello continuo, purtroppo non si ottiene alcun effetto positivo, poiché non solo è già stato fatto, rifatto e strafatto, ma è davvero ridicolo vedere Arsace che si nasconde dietro allo strumento per celarsi ai pastori; e a nulla vale la bravura Lucy Trucker Yates – la sola vera attrice della produzione – poiché il dramma sincero che si legge nei suoi occhi e nei suoi gesti, lo si sarebbe preferito vedere non in lei, bensì nel resto dello spettacolo. E il coup-de-théâtre di quattro o cinque caprette che entrano col pastore e brucano l'erba, sembra proprio significare: “vorrei, ma non posso”.

Poco efficaci sono i costumi firmati da Ursula Patzak, alcuni per l'eccessiva economia delle stoffe, altri per l'incongruenza – Aureliano e Licinio con pantaloni morbidi infilati negli anfibi? – ma migliori risultano le parrucche e i gioielli. Poco suggestivo il disegno luci di Pasquale Mari.

Will Crutchfield si riconferma eccellente musicologo, preciso e filologico e la sua revisione critica è decisamente un passo fondamentale nel percorso della Rossini Renaissance. Non solo ha permesso l'ascolto di tanta musica mai più eseguita da duecento anni, ma anche il recupero di pagine e di tonalità presumibilmente più vicine all'originale. Tanta abilità sulla carta purtroppo si traspone soltanto sulla conduzione delle voci in palcoscenico e non sulla guida dell'orchestra, in quanto la sua mano risulta essere poco avvincente, quasi soporifera e ciò lo si nota fin dalle primissime battute della sinfonia. Probabilmente complice anche la Sinfonica G. Rossini, un poco confusionaria.

Michael Spyres è un Aureliano azzeccatissimo. L'interpretazione è purtroppo ridotta ai minimi termini, ma la vocalità è eccellente e il tenore americano si riafferma uno dei migliori interpreti rossiniani, soprattutto nel repertorio bari tenorile. La messa in mostra delle agilità e delle note gravi nella prima aria, lascia poi spazio all'eleganza e al fraseggio dei duetti successivi, infine alla robustezza degli acuti ben sostenuti nella seconda aria.

Anche Jessica Pratt consolida la sua abilità nello stile serio di Rossini, anche se il ruolo di Zenobia presenta delle insidie abbastanza evidenti. La celebre soprano è indubbiamente una regina di morbidezza, di omogeneità e di precisione musicale, oltreché di bellezza naturale di certe note, delicatissima e raffinata nei duetti, ma troppo dolce nell'aria drammatica “Là pugnai; la sorte arrise” dove sembra mancare di un certo accento, nonostante l'indubbia bravura e perizia tecnica nelle agilità di forza. Non è comunque chiaro se tale carenza sia dovuta all'interprete, alla direzione o addirittura allo stesso compositore, che in quest'opera è chiaramente proiettato al romanticismo.

Nel canto di Lena Belkina si trova sicuramente una vocalità più vicina a quella originale di Velluti, piuttosto che ad interpreti successive più contraltili. È vellutata e soave nei lunghi passaggi patetici, si amalgama molto bene con la musicalità di Jessica Pratt nei bei duetti e si impegna notevolmente nella resa della lunga gran scena d'Arsace di secondo atto, riuscendovi nell'intenzione rossiniana – soprattutto nell'attesa cabaletta “Non lasciarmi in tal momento” – pur non spuntandola nel personaggio, mancando decisamente di spessore e certamente di esperienza.

Molto bene la Publia di Raffaella Lupinacci; adeguati il Licinio di Sergio Vitale e l'Oraspe di Dempsey Rivera; passabile, abbastanza musicale, il Gran Sacerdote di Dimitri Pkhaladze.

Un poco confusionario il Coro del Teatro Comunale di Bologna, soprattutto all'apertura di secondo atto, diretto da Andrea Faidutti.

 
 
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