Dal lontano giorno in cui una mente ignota infuse vita ai personaggi di Orfeo
ed Euridice soffiandovi dentro il proprio respiro, la loro tragica vicenda
ha attraversato il tempo, riempiendo di sé le pagine e gli spettacoli di ogni
epoca e di ogni luogo.
Terreno irrinunciabile di innumerevoli frequentazioni artistiche e letterarie,
questa favola senza tempo ha trovato la sua fonte di immortalità nel corso del
secoli, attraverso puntuali rivisitazioni e preziose versioni, evocando ad ogni
rinnovato impatto l'indomabile richiamo di una forte seduzione nell'animo umano.
Orfeo, figlio del re di Tracia Eagro e della Musa Calliope,
dalla quale ricevette in dono l'arte della poesia, fu anche musicista e cantore.
Grazie all'impiego virtuosistico della lira donatagli da Apollo e alle
capacità canore conferitegli dalle Muse, egli ammansì le belve, ed
incantò le quinte naturali, fino al giorno in cui il paesaggio venne
completamente devastato dalle forze avverse del destino.
Allorché la moglie Euridice morì in seguito al morso velenoso di un
aspide, egli non si piegò al corso degli eventi, ma cercò con impavido coraggio
di recuperare il bandolo disperso dal crudele operato delle Moire, nella
speranza di poterlo riavvolgere fino al punto esatto in cui era uscito
dall'ambito terreno. Facendo leva sulla straniante dolcezza del suo canto,
ammansì il piglio burbero e scostante di Caronte e si fece traghettare
oltre il Tartaro, riuscendo ad espugnare il cuore di Ade che
pareva forgiato nell'acciaio.
Il suo sentimento di amore puro, dispiegato attraverso tutta la gamma delle sue
potenzialità vocali ed accompagnato dalla melodia struggente della lira, si alzò
come un refolo di aria fresca sulla distesa ineffabile dei campi Elisi, capace
di squarciare per una volta, come d'incanto, il velo cupo che avvolge le tenebre
ultraterrene.
Lunghi momenti in cui il tempo parve arrestarsi, le pene placarsi e le anime
fissarsi nella contemplazione stupefatta di un sogno di felicità.
Resistergli fu tormentoso perfino per colui che regge con ciglio superbo il
regno degli Inferi, la voce penetrò fin dentro le sue viscere, dritta
come una lama affilata, rendendolo inaspettatamente vulnerabile dinanzi alla
richiesta di Orfeo.
La restituzione della giovane defunta, nondimeno, fu condizionata al pesante
fardello di un vincolo che obbligava l'eroe di Tracia a guidare l'ignara sposa
nella lunga risalita, privandola e dell'ausilio di una parola e del conforto di
uno sguardo.
Una melodia né triste né allegra si distese in un clima di sospensione
temporale e di febbrile attesa, fino al momento fatale in cui l'incauto
sopravvento del desiderio lo privò definitivamente dell'agognato
ricongiungimento.
Il finale della storia non lascia dubbi sulla profondità della ferita che da
allora si è aperta nell'animo del poeta e del musicista.
Niente sarà più come prima, i suoi versi e la sua musica, come un tabarro
d'angosce serpeggianti, prenderanno a vorticare tenebrosamente suscitando lo
sdegno indignato delle Menadi sfrenate, che facendo scempio della testa
mozzata di Orfeo relegarono per sempre il canto e la poesia tra le pieghe
anguste della malinconica solitudine.
Fin qui il mito.
Le versioni di Virgilio e di Ovidio costituirono poi le prime
fonti di approvvigionamento a cui attinse successivamente la fabula volgare,
inaugurata da Poliziano e sviluppata soprattutto in ambito musicale da
Monteverdi, Gluck, Offenbach e Stravinskij.
Proprio alla trascrizione operata nel 1774 da Gluck, quell'Orphée
et Eurydice che prevedeva tra l'altro un lieto fine, si sono ispirati in
maniera eccessivamente libera David e Frederico Alagna, realizzando un
nuovo allestimento che è in corso di rappresentazione al Teatro Comunale di
Bologna.
Le trasposizioni in epoca moderna di un'opera antica non sono esecrabili in
assoluto, tanto più che forse, a detta di chi opera quel genere di
sperimentazioni, obbediscono alla necessità di rendere più vicina alla
sensibilità odierna una vicenda lontana nel tempo.
Purché tuttavia la dissonanza non si trasformi in stridore o, come in questo
caso, in aperta dissacrazione di una composizione classica.
Lo spettacolo, realizzato dal Teatro Comunale di Bologna in coproduzione con
l'Opera National de Montpellier, è funestata da un approccio irriverente e
dissacrante, in cui la drammaturgia corrode l'atmosfera atemporale del mito in
maniera irriverente e provocatoria.
Facendo leva su di una rappresentazione di forte impatto emotivo, regista e
scenografo stravolgono radicalmente la scrittura di Gluck, ricorrendo con
reiterata ossessione ai toni più crudi ed efferati. Emblematica risulta la
ricostruzione del mondo degli inferi, in cui un'orrida esposizione di penzolanti
cadaveri allineati evoca il cupo scenario gotico di un macabro obitorio.
Serena Gamberoni si confronta svagatamene con una versione improbabile di
Eurydice, che dismette la grazia sensuale di una creatura impalpabile,
assorta in un sogno d'amore e di fedeltà, divenendo una Menade sfrontata
ed impenitente. Morta a causa di un tragico incidente d'auto proprio nel giorno
della celebrazione delle sue nozze, tradisce il suo compagno lasciandosi
deflorare da Ade, reggendosi alla portiera del carro funebre.
Roberto Alagna, sacrificato in un ruolo scritto tradizionalmente per un
controtenore, è un Orfeo impacciato e spaesato che canta in giacca e
cravatta , bravo ma poco incisivo. L'orchestra, diretta dal giovane maestro
Giampaolo Bisanti, si frantuma già ai primi movimenti, rivelandosi priva di
solidità e di temperamento.
Il finale, a sorpresa, si chiude in chiave tragica con Amore che cede il
tradizionale afflato angelico del soprano alla vibrante tonalità baritonale
della Morte scatenando nel pubblico inorridito fischi e cenni di evidente
disapprovazione, dimostrando una volta di più che la musica non ha bisogno di
questi artifici per toccare il cuore della gente.
Forse l'unico merito di questo nuovo allestimento risiede nel fatto di
offrire, ancora una volta, l'opportunità di riflettere sulla solitudine con
cui il poeta canta, ama, lotta e muore. Da solo discende nel mondo degli
inferi e da solo ne risale, pagando un pesante tributo alle sue prerogative
prive di attinenza con l'attuale contesto sociale. |