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Recensione opera lirica Andrea Chénier di Umberto Giordano al Teatro di Reggi Emilia

William Fratti, 05/03/2019

In breve:
Reggio Emilia - Recensione dell'opera lirica Andrea Chénier di Umberto Giordano in scena al Teatro di Reggio Emilia il 1 marzo 2019.


Oltre a La forza del destino, l'altra produzione di punta dei teatri emiliani è Andrea Chénier di Umberto Giordano.

Il ruolo del titolo è interpretato da un bravo Martin Muehle, al cui ascolto si resta inizialmente a bocca aperta, poiché ha un timbro smaltato e particolarmente piacevole che ricorda i grandi tenori di un tempo. Il bel colore è arricchito da acuti svettanti, ma si ha l'impressione che sia sempre titubante, come se fosse incerto e camminasse sulle uova, col risultato di non essere propriamente espressivo.

Saioa Hernandez sfoggia una vocalità vellutata e una linea di canto omogenea, ottimamente corretta delle imprecisioni che si udivano in precedenza, seppur fosse un po' stonacchiata alle prime battute. La sua Maddalena è molto buona anche se non memorabile, necessitando sicuramente di un fraseggio più eloquente e cromatismi più decisi.

Eccellente il Carlo Gérard di Claudio Sgura, brillante e squillante nell'emissione, drammatico nell'accento, appassionato nell'espressività, autorevole nell'interpretazione. Non si potrebbe fare di meglio, si potrebbe solo fare diversamente.

Particolarmente riuscite la spigliata Bersi di Nozomi Kato, la corposa Madelon di Antonella Colaianni e la frivola Contessa di Shay Bloch.

Efficacissimi anche il Roucher di Stefano Marchisio, il Fléville/Tinville di Alex Martini e l'incredibile di Alfonso Zambuto, oltre agli adeguati sanculotto Mathieu di Fellipe Oliveira, l'Abate di Roberto Carli, Schmidt di Stefano Cescatti e il Maestro di Casa/Dumas di Luca Marcheselli.

Ottimo il Coro Lirico Terre Verdiane preparato da Stefano Colò.

Brava l'Orchestra Regionale dell'Emilia-Romagna diretta da Aldo Sisillo, un po' confusionario, un po' pasticcione, un po' caotico, ma tutto sommato non colpevole di gravi danni.

Nicola Berloffa, che era piaciuto in La Wally e aveva soddisfatto in Les contes d'Hoffmann, mentre aveva compiuto un disastro ne La vedova allegra e in Un ballo in maschera, qui resta in un banale provincialismo che non desta interesse né fastidio, ma passa piuttosto inosservato.

I tableau, con scene di Justin Arienti, costumi di Edoardo Russo e luci di Valerio Tiberi, sono abbastanza piacevoli in primo e terzo atto, ma poco centrati in secondo e quarto.

I simboli della rivoluzione ci sono tutti, ma certe caccole in antitesi col libretto si potevano evitare, come pure si potevano riempire i molti vuoti, ma questo purtroppo è un trait d'union degli spettacoli di Berloffa.

 
 
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