Tutto esaurito nel massimo cittadino napoletano per il capolavoro del donnaiolo lucchese, ma se qualcuno un centinaio di anni fa scrisse di far ambientare il tutto nella Pechino o dintorni, qualcun altro in questa tornata partenopea ha ben pensato di farsi un giro di mappamondo per rendere il complesso di un incomprensibile senza precedenti.
Telo scenografico bianco sullo fondo. Niente quinte, niente lettiga, niente palazzo imperiale, niente di niente che potesse dare l'idea di ciò che stava accadendo sul palco né sul dove né sul quando. Costumi in contrasto tra di loro, cantanti che lottavano con il muro del suono, coro ridicolamente inquadrato in alto al primo piano di non si sa cosa e perché.
Insomma un'edizione dell'ultima opera pucciniana talmente ingarbugliata nella scenografia e povera nella direzione scenica degli artisti che si faticava quasi a riconoscerla come la principessa dai tre indovinelli.
Primo fra tutti sul banco degli imputati quindi, David Hockney che ha curato la regia e le scene, se ottimisticamente così volessimo definirle.
Il complesso visivo infatti era totalmente occupato da una insignificante struttura piatta di colore bianco posta a metà palco che traslava verticalmente per rendere visibile il coro inquadrato in alto su una superficie soppalcata a mò di condannati per crimini di guerra.
Niente quinte laterali per permettere ovviamente la visione degli attrezzisti che se la spassavano di lungo in largo e strutture cubiche in legno che comparivano di tanto in tanto in scena denotando la bravura della falegnameria operatrice.
Gran finale con la comparsa di Turandot posta in una sorta di cilindro rosso perforato che dava l'idea di una gabbia per gorilla impazziti.
In platea, pubblico con la bocca aperta in modo tale che dentro potesse ben entrarci un punto interrogativo.
A seguire lo scenografo a passo di canguro in amore, ci ha pensato subito il costumista
Ian Falconer con le sue casacche da collegiali orientali sia per gli artisti del coro sia per il principe ignoto che spezzavano con un pantalone classico da sceneggiata napoletana e mocassini da agente immobiliare in tenuta estiva; per non parlare delle tre maschere che oltre a cercare di convincere Calaf di andarsene in gita al mare invece di corteggiare Turandot, si sono anche improvvisate trasformiste cambiando ripetutamente abito: da Kimono da maestri di arti marziali con tanto di baffo, a giacchetta e cappello stile scagnozzi di Al Capone; non si sono poi risparmiate nell'alternare una tuta da operai addetti allo scarico nel porto di Napoli ad una mimetica militare per ufficiali degradati a caporali per tener a bada Timur.
Mentre così il mandarino di turno imitava le comiche gesta di Totò, con uno smoking prestatogli sicuramente dal prestigiatore Silvan, Liù palesava la sua tendenza a voler vivere una notte in uno dei migliori ristoranti di Margellina, indossando un aderente Tajer viola e incrementando con le sue rotondità un energico sex appeal.
L'unica nota di merito forse va al costume della perfida principessa, che in mezzo a quel manicomio sembrava Mata Hari sulla Luna che non vedeva l'ora di tornarsene a casa.
Da dimenticare per non cadere in preda agli incubi.
Ecco dunque il debutto di Cristina Piperno nel ruolo di Turandot.
Donna giovane, bella e indubbiamente anche brava, ha dimostrato di aver avuto coraggio nell'affrontare un personaggio dal notevole peso vocale. Leggermente passiva sulla scena nelle perfidi espressioni richieste, la romana ha spiegato una voce da soprano lirico spinto ed è stata l'unica a vincere (ma non di moltissimo) il contrasto con il muro del suono orchestrale quando era incalzato doverosamente dai rinforzi del direttore. La sua attitudine a tale tessitura è risultata fuori discussione, ma la timbrica vocale esigeva ancora di qualche virgola brunita per fare dieci su dieci. Nei prossimi anni conosceremo una Piperno sicuramente più matura sia in voce sia in scena nell'impersonare la principessa di Pechino.
Altro debutto per Aleandro Roy nel ruolo di Calaf.
Il biondo Spagnolo si è dimostrato molto deciso nella parte recitante. Tenore lirico scuro, produceva vibrazioni metalliche e spinte nei medio gravi fino al FA#, ma dal passaggio in poi, gli acuti non percorrevano la stessa strada della timbrica della gamma inferiore e i suoni diventavano da tenore lirico chiaro. La voce glielo avrebbe anche permesso, ma i suoi accenti eroici (specialmente nei tre indovini) si sono lasciati molto a desiderare. Veramente un vero peccato per quella voce che di tanto in tanto ricordava qualche virgola corelliana!
Vocalità pulita ed educata e sulla scena un deciso vittimismo quello di Norah Amsellem che ha cantato la parte di Liù; meno credibile
Marco Spotti, nell'esecuzione di Timur: voce troppo chiara, interpretazione poco “anziana” e non ultimo, abito che a malapena era attinente.
Scarichi di decibel Giorgio Caoduro, Gregory Bonfatti e Luca Casilin nelle rispettive maschere di Ping, Pong e Pang.
Ruolo sicuramente non congeniale ai suoi mezzi vocali né scenici quello del mandarino, affidato al basso comico
Andrea Porta, autentico maestro dei pentagrammi buffi e quindi non sicuramente per un tizio che annuncia regola di vita e di morte.
Coro con gran voglia di andare in vacanza diretti dall'ancora più stanco maestro
Marco Ozbic che, sottovalutando le doverose pressioni orchestrali che il buon Puccini scrisse, poco ha pensato a rinforzare i suoi elementi per far arrivare le loro vibrazioni alla prima fila della platea; decisamente più credibili e in forma le voci bianche dirette da
Stefania Rinaldi.
Bacchetta della direzione orchestrale affidata a Pinchas Steinberg che senza ombra di dubbio è stato l'unico vero protagonista di tutte le due ore e mezza di spettacolo.
Preciso e nervoso nelle incisività orchestrali, dolce e pacato nei rari momenti di riflessione musicale.
Tralasciato il finale di Alfano, in rispetto al 150esimo anniversario dalla nascita di Puccini, l'opera ha avuto termine là dove il compositore di Lucca scrisse le sue ultime note, quindi dopo l'aria di Liù “Tu che di gel sei cinta”, e sperando di non vedere mai più scandali del genere in luoghi che dovrebbero preservare i valori della musica e il pensiero di coloro che la concepirono, ci auguriamo di rivedere una Turandot al S.Carlo
di Napoli con tanto di vincerò sfolgorante, e scene appropriate ad uno dei più
grandi gioielli della lirica italiana, che in questa edizione napoletana ha
deluso anche il più ignorante degli spettatori.
Antonio Guida