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» Recensione opera La fanciulla del West di Giacomo Puccini al Gran Teatro di Torre del Lago

Silvia Cosentino, 18/08/2010

In breve:
Torre del Lago, 07/08/2010 - E' andata in scena la terza e ultima replica de La Fanciulla del West, allestimento celebrativo dei cento anni dalla prima rappresentazione al Metropolitan di New York (10 dicembre 1910). La nuova produzione porta la firma di Kirsten Harms alla regia e dell'artista Franco Adami alle scene, inserite nel progetto Scolpire l'Opera.


E' il 1907 quando Giacomo Puccini scopre a New York il dramma di David Belasco The Girl of the Golden West: il tema western lo affascina e da quel momento fino al 1910 e' impegnato nella stesura di libretto, musica e orchestrazione. Come sempre quando si tratta del Maestro lucchese, il percorso non e' in discesa, sia per l'intensa supervisione sul lavoro dei due librettisti Carlo Zangarini e Guelfo Civinini (e' ormai terminato il tormentato idillio con Illica e Giacosa) sia per la triste vicenda del suidicio della cameriera Doria Manfredi e dei problemi legali che ne seguono. A tal proposito, le recenti scoperte del regista pisano Paolo Benvenuti testimonierebbero come Puccini avesse in realta' intessuto un legame sentimentale con Giulia, cugina di Doria, e come proprio a lei siano da attribuire le peculiarita' fisiche e caratteriali riscontrabili nel personaggio di Minnie. Su questa linea, la Polka californiana altro non sarebbe che una trasposizione dello Chalet di Emilio (padre di Giulia), sulla sponda del ben piu' familiare Lago di Massaciuccoli.

A seguito di una poderosa campagna pubblicitaria da parte di Tito Ricordi e della direzione del MET, l'opera debutta con un impianto scenografico all'avanguardia e un cast stellare, tra cui Enrico Caruso nel ruolo di Dick Johnson, diretto da Arturo Toscanini. Sempre accorto uomo di teatro, Puccini realizza un prodotto intriso di una sconvolgente modernita', fluido nel suo essere totalmente emancipato da qualsiasi gabbia compositiva: le sue caratteristiche melodie si fondono con il cake-walk e il reel, con lo spiritual nero e il bolero, avvincendo tanto il pubblico americano, quanto quello lontano dal Soledad di cui si narra.

Il progetto del Festival Puccini Scolpire l'Opera, un connubio arte-musica che non sempre ha portato felici risultati nel corso degli anni, vede in questo caso le scenografie affidate a Franco Adami: mantenendo come punto fondamentale la febbre dell'oro californiana tra 1849 e 1850, lo scultore concepisce una pepita stilizzata come modulo da riprodurre. Totem blu elettrico e un'insegna rosa con la scritta “Polka” sostenuta da colonne accolgono lo spettatore all'ingresso del parco del teatro, invitandolo a immergersi in un nuovo mondo.

La locanda nel primo atto e' delimitata da pareti decorate con motivi romboidali e intervallate da gruppi di tre pilastri con una pepita sulla sommita', a ricordare anche la criniera del cavallo o uno sperone. Un bancone dorato sullo sfondo, tavolini e sedute al centro con forme che richiamano cespugli, cactus e pepite. I differenti tagli d'illuminazione, disegnati da Valerio Adami, dei fari e delle lampade appese alle pareti rendono la scena brillante o minacciosa a seconda dei momenti della vicenda, colorando le monumentali colonne (un esercito onnipresente di rudi cercatori d'oro?) di toni sabbiosi.
Questa schiera diviene elemento decorativo pittorico nel fondale del secondo atto: predominano l'azzurro e il bianco, in riferimento alla tempesta di neve che sta infuriando; ad arredare l'interno dell'abitazione di Minnie, solo due stravaganti chaise longue arretrate (la cui forma ricorda quasi un'araba fenice) e un tavolino in primo piano, anche in questo caso dorati.

La selva californiana della terza parte vede la presenza di sfondo nero su cui campeggia un sole-pepita, i totem gia' citati e una pedana-patibolo: due bassi carrelli con fari mossi da tecnici sul palco creano rapidi movimenti di luce orizzontale che contribuiscono a rendere la scena cupa e concitata. Inevitabile che la personalissima lettura di Adami lasci inizialmente smarriti e perplessi: l'occhio non riconosce le suggestioni previste, trovando invece un impianto scenografico forse piu' adatto a un'ambientazione orientale; tuttavia, man mano che la vicenda procede, i vari elementi vanno a fondersi in una coerenza espressiva in linea con musica e testo.

Da notare come alcune scelte di Giovanna Fiorentini per la realizzazione dei costumi suggeriscano una modernita' che va oltre l'epoca di riferimento: giacche di pelle e occhiali da sole per  gli uomini, vestiti dalla linea ricercata e tacchi alti per Minnie, che poco rispondono a quella comodita' che i luoghi in questione richiederebbero.

Di alto livello la performance di tutto il cast, dai componenti maschili del Coro del Festival Puccini (diretto da Stefano Visconti), sicuri nell'esecuzione e abili nel rappresentare con dinamismo varie tipologie umane, ai personaggi principali. La solida voce del soprano Daniela Dessi' da' vita a una Minnie dal carattere complesso, secondo le indicazioni registiche: una donna forte e al tempo stesso sensibile, impegnata a gestire tutte le irrequietezze di un mondo prevalentemente maschile. Il tenore Fabio Armiliato delinea un Dick Johnson agile e potente, sempre pulito nel canto, mentre l'intenso timbro del baritono Carlos Almaguer esprime con sensibilita' il tormento e l'umana impulsivita' di Jack Rance. Piacevolissime le interpretazioni del basso Luigi Roni (Ashby), del baritono Giovanni Guagliardo (Sonora) e del tenore Cristiano Olivieri (Nick), impegnati a tratteggiare in modo personale indoli diverse.

Un gran peccato che un cosi' bel gruppo di cantanti venga penalizzato dai soliti incresciosi problemi di acustica connaturati con la struttura del Gran Teatro: la pur precisa direzione del Maestro Alberto Veronesi, sul podio dell'Orchestra del Festival, non riesce purtroppo a contrastare lo sgradevole disequilibrio tra i volumi di voci e organico. Si puo' comunque apprezzare tutta la stimolante originalita' di questo allestimento, una volta superato il disagio di fronte al tradimento di tutte quelle, spesso limitanti e dannose, aspettative con le quali ci si accosta a uno spettacolo.

 
 
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