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Recensione dell'opera Don Carlo presso il Teatro Municipale di Piacenza

William Fratti, 15/11/2012

In breve:
Il Don Carlo viene accolto con fischi e disapprovazione, Malagnini e Piazzola sotto le aspettative, le signore non fanno di meglio, l'unico a salvarsi Prestia nei panni di Filippo II


Alla vigilia dell'inaugurazione della Stagione Lirica 2012-2013 del Teatro Municipale di Piacenza, si comunica una novità molto importante: il ritorno di Cristina Ferrari in qualità di direttore artistico. Si tratta di un “rinforzo necessario”, poiché gli ultimi anni hanno visto cadere sempre più in basso la qualità delle proposte offerte. Purtroppo i giochi dell'attesissimo Don Carlo sono già fatti e la tanto temuta prima è un susseguirsi continuo di disapprovazioni del pubblico.

Per il primo appuntamento del Bicentenario Verdiano si propone l'interessantissima “Versione Modena, 1886” in cinque atti, con il ripristino dello storico spettacolo di Luchino Visconti. In realtà si tratta principalmente di un nuovo allestimento che prende spunto da quello originale, ma da un punto di vista registico e scenografico ne escono una scarpa e una ciabatta.

Joseph Franconi Lee mette mano a questo spettacolo per l'ennesima volta, ma non riesce a riprodurre lo stesso filo conduttore che lo ha seguito nelle precedenti edizioni. Innanzitutto si nota in maniera troppo evidente la mancanza di amalgama tra ciò che è nuovo e ciò che è vecchio o riprodotto. I costumi curati da Alessandro Ciammarughi sono splendidi, come pure le scene dipinte da Rinaldo Rinaldi, Maria Grazia Cervetti e Keiko Shiraishi, che hanno quell'aura verdiana di “torniamo all'antico e sarà un progresso”, ma si discostano troppo dalle costruzioni e dal PVC usato come fondale, eccessivamente colorato da un improbabile disegno luci a cura di Nevio Cavina. In poche parole, inizialmente ci si aspetta di assistere ad un allestimento realistico, ma poi ci si trova di fronte ad una cattedrale dipinta di rosa e ad una camera da letto prima verde, quindi blu e marrone. Tali colori, come molti altri, anche in ulteriori scene, potrebbero effettivamente rappresentare un cambiamento emotivo nei personaggi, ma allora si tratta di una messinscena realista, astrattista, o cosa altro? Infine, per quanto riguarda movimenti e gestualità, si nota una certa cura nei protagonisti, ma coro e figuranti sembrano lasciati allo stato brado e non si capisce neppure dove e quali siano i movimenti coreografici di Marta Ferri. A questo punto, considerati i precedenti successi di questa validissima squadra di artisti, ci si domanda se tale caduta di stile sia dovuta al dolo, o alla colpa: c'è stato tempo a sufficienza per le prove?

Dal punto di vista musicale, lo spettacolo è uno scempio ancora più grande. Fabrizio Ventura, alla guida dell'Orchestra Regionale dell'Emilia-Romagna, è fischiato ad ogni ingresso in buca. La sua direzione appare molto approssimativa, pressappoco una lettura superficiale dello spartito, essendo prevalenti un suono forte e chiassoso, quasi fossero assenti le legature, i pianissimi, i crescendo, i diminuendo e tutte le altre indicazioni nella partitura. Anche il legame col palcoscenico sembra assente, tanto che attacchi e chiusure sono quasi mai precise.

Mario Malagnini è certamente dotato di bella voce e ottimo volume, ma difetta di eleganza e raffinatezza, qualità indispensabili al canto verdiano, in quanto immediatamente riconducibili all'accento e al fraseggio. La dolcissima aria di sortita di Don Carlo è eseguita quasi interamente in forte e mezzo forte, senza alcun colore e questa modalità di canto diventa il segno distintivo del protagonista per tutta la durata della lunga esecuzione. Nei duetti con Elisabetta, in cui talvolta la sua voce arriva all'urlo, si perde tutta la caratteristica interpretativa e l'intensità drammatica viene meno.

Cellia Costea è dotata di una voce particolarmente importante, certamente adatta al repertorio lirico drammatico e al ruolo di Elisabetta, ma con una tecnica che sembra presentare problemi nel passaggio e nei fiati. Alcune note della prima ottava sono afone, o comunque affette da raucedini; gli acuti non sono sempre puliti e i pianissimi sono praticamente inesistenti. Il quinto atto rappresenta una sorta di riassunto dei suoi pregi e difetti, in quanto spicca maggiormente nel recitativo “Tu che le vanità”, con buon accento e bei gravi, ma suoni sporchi in acuto; monotona e priva di finezze nel cantabile “O Francia, nobil suol”; infine con fiati corti e qualche afonia nel duetto con Don Carlo.

Tra i protagonisti, Giacomo Prestia, nelle vesta di Filippo II, è il solo a passare indenne alla resa dei conti del pubblico piacentino inferocito. Effettivamente, appena entra in scena, si nota la differenza di livello con gli altri interpreti. Purtroppo la voce è talvolta malferma e ciò lo si nota soprattutto nel lungo concertato di terzo atto, ma l'espressività del suo fraseggio, la capacità d'uso dei chiaroscuri, l'eleganza dei colori, la capacità d'accento nell'interpretazione della parola, fanno la differenza nel suo personaggio, intenso e struggente.

Alla Pozniak è una Principessa Eboli che non può essere spesa sul suolo italiano. Avrà pure un bel colore brunito e metterà pure un certo impegno nell'uso degli accenti, ma ha una pessima dizione, non si capisce nulla, utilizza troppo la glottide tanto da sentirsi il suono della lettera g e non esegue accuratamente i legati. Inoltre nel duetto e terzetto “Sei tu, bella adorata… Al mio furor sfuggite invano” e nella temibile aria “O don fatale, o don crudele” gli acuti sono molto stiracchiati.

Dopo il grande successo ottenuto nel ruolo di Germont, il ritorno di Simone Piazzola a Piacenza nei panni di Rodrigo disattende tutte le aspettative. La sua performance è corretta, ma non va oltre la norma, nemmeno nella resa del personaggio. Ci sono poco colore e poco fraseggio, la voce sembra quasi non timbrata e si nota una certa fatica sulle note basse, soprattutto nel duetto con Filippo II.

Luciano Montanaro, nei panni del Grande Inquisitore, manca del peso e dello spessore necessari al personaggio. Giuseppe Verdi è sempre stato molto preciso nella definizione dei suoi ruoli affidati alle voci gravi e quest'opera deve contenere tre livelli ben distinti di bassi, che non a caso raggiungono tre profondità diverse. Purtroppo l'artista non appare sufficientemente profondo e l'inesorabile mi grave su “Sire” è mal poggiato. Inoltre, nel finale quarto, la sua voce è completamente coperta e non si ode nulla.

Paolo Buttol, nel ruolo del frate, presenta una voce troppo ingolata ed è stonacchiato nell'esecuzione della preghiera che apre il secondo atto.

Irène Candelier è un Tebaldo apprezzabile, anche se si poteva fare di meglio, soprattutto nel pertichino della canzone del velo. Perlomeno ha una buona intonazione e un volume sostenibile. È soddisfacente nel canto di una voce dal cielo. 

Improponibili il Conte di Lerma e l'araldo reale di Giulio Pelligra e Marco Gaspari.

Insoddisfacente, sia vocalmente, ma soprattutto scenicamente, la prova del Coro Lirico Amadeus del Teatro Comunale di Modena diretto da Stefano Colò.

Al termine dello spettacolo, gran parte del pubblico esce dalla sala subito dopo la chiusura del sipario. Fischi e disapprovazioni per tutti gli interpreti, chi più e chi meno, compresi direttore e comprimari. Accoglienza calorosa soltanto per Giacomo Prestia e Irène Candelier.

 
 
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