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ATTILA di Verdi al Teatro Filarmonico di Verona

manlio mirabile, 10/02/2013

In breve:
Splendida esecuzione dell'opera di Verdi, esaltata negli aneliti di vendetta, nel canto struggente dell'amore per la patria e nei momenti di soave lirismo, dalla imperiosa direzione di Andrea Battistoni e dalla interpretazione di Amarilli Nizza, monumentale Odabella.


Nello schema scenografico di questa splendida messa in scena dell’Attila, colpiscono due elementi scenici: il cielo nelle infinite modulazioni dei suoi colori e l’assenza di spazi chiusi. In esso assumono significato la piazza di Aquileia, l’accampamento, il furore della tempesta, l’influenza delle forze del creato sulla miseria delle vicende umane, costellate di urli, rapine, gemiti, sangue, stupri, rovine, stragi e fuoco, mentre gli intimi contrasti dei personaggi, passionali, scopertamente politici, perfino patetici, appaiono proiezione, nei loro spiriti, dei contrasti stessi della natura. La vicenda è dominata da fosche e livide tinte che riflettono le oscure passioni e il senso del destino della tragedia, la quale esordisce con la denuncia dell’odio dell’oppresso che attende il giungere dell’ora della vendetta. La quale infine consumata viene da tutti salutata con il solenne, universale Appien sono vendicati, Dio, popoli e re!.

Inserire tutti i valori più alti e più sacri dell’amore per la libertà, per la patria, per il bel seren di pace, per i propri caduti, inserire l’ansia del risorgimento, della costruzione delle città in rovina fino a renderle della terra, dell’onde stupor, nello schema eterno dell’oppresso che medita vendetta e vendetta infine ottiene, ha qualcosa di intrinsecamente blasfemo che solo una elevata ispirazione del libretto e soprattutto della musica può far dimenticare. E questo è il miracolo del giovane Verdi nel 1846, cui bastavano pochi, deboli pretesti, poche e poco solide fondamenta per elevare cattedrali immortali.

L’Attila fa parte di quella schiera di opere che priva di personaggi di grande respiro psicologico, senza la irruenza avvolgente della musica, senza il fascino maestoso dei cori che invocano il ritorno del re al sangue e al fuoco, o la resurrezione della patria, o dallo spirito creatore implorano saggezza, sarebbe destinata all’oblio. Ma la grandezza di Verdi, quel suo cogliere con Mazzini la necessità di un nuovo linguaggio musicale, lontano dalla maestosità del Rossini spirituale e dalla dilatazione celestiale del linguaggio di Bellini, lontano perfino dalle perfette architetture di Donizetti così compiute ma così lontane dal sentire popolare e plebeo, portarono alla scoperta di tale linguaggio per sé: e fu la sua prima grande invenzione dell’opera in musica. L’Attila nasce come altre opere di Verdi in tale clima di scoperta di un nuovo linguaggio musicale, di una nuova filosofia della musica, ma rispetto alle altre opere affollate di personaggi, talvolta solo pretesti, gode del privilegio di un personaggio che grandeggia e offusca gli altri. Odabella, figlia del governatore di Aquileia ucciso da Attila, condottiera delle prigioniere che hanno combattuto contro gli invasori, è un monumento musicale dal fascino irresistibile. Guerriera anelante d’alta vendetta per la morte del padre, posseduta dal santo di patria indefinito amor!, affronta sprezzante e irridente il re unno. Fiera di se stessa si paragona alla Giuditta che salva Israele. E fedele al suo amore che teme perduto, romanticamente lo cerca nel silenzio della natura. Vergine guerriera che con orgogliosa fermezza finge di assecondare i desideri di Attila per poter portare a compimento il suo disegno di vendetta, è sicuramente la più degna rappresentante del popolo italico che lotta per la libertà della propria patria, è la «salute di quell’umile Italia per cui morì la vergine Cammilla» di Dante.

A tale figura astuta e sanguigna, romantica e sognatrice, ha dato voce e intensità interpretativa Amarilli Nizza, al suo debutto nell’opera. L'esordio di Amarilli Nizza - Odabella, nell’aria Santo di patria indefinito amor è travolgente e folgorante, degno di una fiera guerriera e ruggente. La voce, con energia, in poche battute vola al do acuto sopra il rigo per precipitare poi giù sino al si sotto il rigo e poi svettare di nuovo dopo una corona. Un'entrata temeraria e pirotecnica risolta dalla cantante non solo con la dovizia di mezzi vocali, ma ancor più col dare a ogni frase la fonazione adeguata ad esprimere l’invettiva, il rancore, l’irrisione. Il suo barbaro, nella frase stan le tue donne, o barbaro, sui carri lacrimando, è un dardo scagliato con sprezzante violenza a sottolineare la immensa differenza tra le eroiche donne italiche sempre pronte alla pugna, e le pavide donne unne più propense al piangere che non al pugnar. E nella cabaletta successiva, dopo aver ottenuto da Attila la sua spada, con sottile, ingiuriosa irrisione gli si rivolge chiedendogli indovina per qual petto è tua punta? Straordinaria nella sottile capacità di fingere l’accettazione del real corteggio di Attila che la vuole sua sposa, riconoscendo in esso un lampo di celeste aiuto nel vendicare la morte del padre. Dopo la affascinante irruenza del prologo, l’Odabella di Amarilli Nizza acquista nell’atto I una umanità più sacra, più devota, più sognante. Vellutato il suo modo di esprimere nel buio della notte, immersa nelle sole voci della natura, lo stupore con cui nel fuggente nuvolo intravede la immagine del padre, e nelle mutazioni del cielo avverte la presenza ancora viva di Foresto. Elegiaca infine di una elegia romantica e tutta raccolta l’invocazione del silenzio della natura, del mormorio del rio, del fremere dell’aria, perché possa udire la voci degli spiriti amati. Pagina magistralmente vissuta con una gestualità tesa verso la totale immersione nella soavità della natura e una voce che si fa sempre più piana in sintonia con il silenzio sommo della notte. Eppure è quella stessa voce che furente e offesa, risponde a Foresto, che l’accusa di averlo tradito, Tu!...tu Foresto, parli così? E che a denti stretti ribadisce il suo anelito alla vendetta nella frase Padre, digli tu se anelo d’alta vendetta in cor.

Dopo tale interpretazione sarebbe lecito affermare che Amarilli Nizza è oggi l’Odabella per eccellenza. La bellezza fisica, l’enorme talento di attrice e interprete, il soggiogante carisma scenico, si accompagnano a una voce bellissima, ampia, sonora, dai riflessi scuri e corposi, capace tuttavia di dolcissime filature, rapinose ascese in acuto, arabeschi passaggi di coloratura, affrontati con classe somma e tecnica magistrale.  

Ad Attila il giovane Roberto Tagliavini ha dato con generosità tutta la bellezza della sua voce di basso morbida, autorevole e possente, senza tuttavia di esso rendere né l'audacia né la nobiltà, né l’estrema dignità con cui coglie la trama orditagli contro. La sua interpretazione è stata coinvolgente più per la bellezza della voce che per la intensità della introspezione psicologica. La quale restando inesplorata sottrae al re unno i connotati sia dello stragista sanguinario e brutale, sia del condottiero leale e incapace di compromessi, sia dell’ingenuo adulto che crede nei sogni e li teme. Nel canto del suo sogno più che il terrore per il suo valore profetico esprime una fanciullezza dello spirito. Dopo la scoperta della trama degli scellerati Odabella, già schiava e ora sua sposa, di Foresto, il fellon, cui aveva donato la vita e di Ezio salvo perché Roma lui l’ha salvata, si eleva alla dignità del re che minaccia, imperioso, sanguinosa vendetta. Un Attila convincente ma ancora non perfettamente a fuoco, causa forse una maturazione di attore ancora in corso.

Assai diversa la valutazione di Roberto Frontali, Ezio. Con la sua voce piena, in un autentico stato di grazia, ha disegnato con tutti i chiaroscuri della partitura la figura del generale romano. Subdolo e viscido nel duetto cui offre ad Attila il suo sostegno in cambio del dominio dell’Italia, ma impavido e per nulla umiliato di fronte al rifiuto del baratto da parte del re, lo invita con sottile ingiuria ad essere condottiero della stessa  masnada, già messa in fuga, mentre lui comanderà gli stessi guerrier. Fiero e ingiurioso nei confronti di Attila, è fiero ma sdegnato nei confronti dell’imperatore Vespasiano III, imbelle giovane, coronato fanciullo che gli impone la tregua con gli Unni. Possente e fermamente orgoglioso nella invocazione de l’ombre degli avi, grazie ai quali l’aquila romana dispiegò le sue ali per l’universo intero, constata l’amarezza di poter ora solo raccogliere nella polvere l’immortalità di un tempo. Vigorosa e orgogliosa interpretazione del baritono che di fronte alle barbarie degli Unni e alla miseria umana del giovane imperatore, invoca orgogliosamente la immensa grandezza di Roma. Il suo Dagli immortali vertici… così amaro e così pregno di fierezza nazionale, non può non riportare alla mente i versi sublimi di Leopardi All’Italia O patria mia, vedo le mura e gli archi, …ma la gloria non vedo…ond’eran carchi i nostri padri antichi. Riflessione resa da Frontali con senso di dolore e composta passione nell’inginocchiarsi e cogliere un pugno di polvere che fa ricadere dalla mano come la polvere in una clessidra. Un messaggio del tempo che trascorre e rende polvere ogni essere apparso immortale e un mesto confronto della gloria degli avi con la presente schiavitù italica. 

Giuseppe Gipali, pur non in condizioni vocali eccellenti per una indisposizione in corso, è stato assai generoso e ha tratteggiato un Foresto credibile nel ruolo di innamorato che teme per la vita della sua amante da cui crede d’essere tradito, e nel ruolo di duce, scudo e salvezza degli Eremiti scampati al furor dell’Unno. Personaggio in apparenza marginale nella tetra vicenda di una vendetta invocata e finalmente compiuta, è quello in cui l’individualità si espande maggiormente nell’amore più alto verso la patria. Piena di fede e di amore filiale la sua cabaletta Cara patria, già madre e reina,…ha squillo e baldanza, potenza di aggregazione e certezza di resurrezione. Condottiero di superstiti, forte dell’auspicio della croce e dell’altare, sa infondere al popolo di Aquileia la virtù del patire e il coraggio dell’azione. Canto se non di alto magistero, certamente capace di sollecitare nel pubblico attimi di autentico orgoglio.

Uldino, il giovane Antonello Ceron, e Leone, Seung Pil Choi, sono stati vocalmente all’altezza del loro ruolo. Qualche irrisione ha sollecitato nel pubblico la figura di Leone (Magno) interpretato da un coreano. Ma tale breve intermezzo surreale è da ascriversi non al giovane, quanto a chi a quel ruolo lo ha chiamato, con qualche leggerezza.

Le scene e i costumi erano di Jean-Pierre Vergier. Assai espressive le scene dominate da un cielo immenso che tutto sovrasta e che riflette nella mutazione dei suoi colori la dinamica dell’azione scenica. Livido nei momenti tragici dell’arrivo dei superstiti ad Aquileia, raggiante di un sole immenso all’apparire del vecchio Leone, allegramente illuminato da fuochi di artificio durante il solenne convito, attraversato da faville di lampi durante il temporale su Rio Alto, è costantemente attraversato da nuvole veloci quasi a scandire la inesorabilità del tempo che cambia situazioni, stati d’animo ed eventi. La scena finale è invece dominata da un immenso tronco d’albero con le radici divelte e vistosamente inclinato, che si eleva oltre lo spazio visivo, quasi sradicamento dell’impero unno e suo dissolvimento.

La regia di Georges Lavaudant nella ripresa di Stefano Trespidi ha saputo esprimere nell’ambientazione scarna, nel livido dei colori dominanti, tutta l’atmosfera di violenze, attesa di vendetta, inganni e presunti tradimenti da cui l’opera è affastellata. Ma della stessa ha saputo cogliere i momenti luminosi come l’incontro con il vecchio Leone, punto focale della salvezza di Roma, attraverso una scena immersa nella luce del mattino di un sole immenso, quasi esplosione della luce di libertà. Poco di risorgimentale nella concezione globale dell’opera, ma abbastanza eloquente nella scansione di eventi così diversi come l’arrivo degli eremiti guidati da Foresto, l’incontro col torbido generale romano, e l’avverarsi del sogno di Attila e della sua ingloriosa fine. 

I cori diretti dal M° Armando Tasso, sono stati capaci di trasmettere con avvolgenti sonorità tutta la gamma di sentimenti dei guerrieri di Attila, degli Eremiti di Aquileia, del corteo delle vergini e dei fanciulli. Nella loro eloquenza e contrapposizione sono stati essi stessi diversamente ma ugualmente interpreti.

La parte musicale è stata eccellente e il M° Andrea Battistoni, ha reso magistralmente la violenza incandescente delle passioni, nei ripetuti scontri tra i quattro personaggi principali, e le parti più liriche, evidenziando tutte le sfumature e i colori contenuti nella partitura. Di alta e nobile poesia il cupo preludio all’opera, nel quale l’immensa rovina del paesaggio e la devastazione degli spiriti si colgono con una evidenza da pittore espressionista. Evidenza che si trasforma per incanto in colori romantici nell’ultima parte del preludio in cui l’ansia del riscatto, il bisogno di ricostruzione, si fanno evidenti e impellenti. Sotto la sua direzione da tutta la partitura emerge una forte coerenza,  dal calcolo perfetto dei tempi narrativi, all’attenzione ai colori strumentali, ai grandi quadri e alla contrapposizione vocale tra i protagonisti. Sovrano in tutti i momenti dell’opera, capace di dare sbalzo vibrante al linguaggio e alla drammaturgia di Verdi, il maestro ha raggiunto l’apogeo di una direzione soggiogante nel concertato finale dell’atto I e nel lungo, complesso e vigoroso concertato che chiude l’atto II. Sotto una conduzione così attenta, così calibrata, così luminosa anche un colpo di piatti alla fine di un crescendo, diveniva suono luminoso assai lontano da quel fracasso che solo ritmicamente può riportare all’idea di fonicità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
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