Il Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, nel pieno della sua crisi economico finanziaria – con un ex presidente che, invece di accorgersi dei seri problemi che si sono sommati negli anni, si è interessato solo ad altro tipo di attività politiche – trova un lieve sollievo nel risparmio prodotto dalla decisione del commissario straordinario Francesco Bianchi di non produrre un nuovo spettacolo per la tanto attesa inaugurazione dell'80º Maggio, ma di rappresentare l'opera in forma di concerto.
Il Maestro Mehta, in palcoscenico con la sua orchestra, è il solito orologio svizzero e anche se non ha un dialogo particolarmente sentito con il cast vocale, né un gusto personale nell'interpretazione dello spartito, sa tirare fuori dalla partitura la verdianità più significativa, come se conoscesse l'intenzione del compositore, l'anima dello stesso Verdi. La pulizia del suono e l'eleganza dell'esecuzione sono i segni distintivi del direttore alla guida dei complessi artistici fiorentini, che trovano il loro apice nella scena dell'autodafé, con un coro, preparato da Lorenzo Fratini, al massimo del suo splendore; eccellente è la resa dei pianissimi nella scena di San Giusto.
Così come Wagner ha aperto la stagione del bicentenario, Verdi è il protagonista del Festival del Maggio Musicale Fiorentino, che raggiunge quest'anno la sua ottantesima edizione. Ma così come per Macbeth, che a giugno sarà rappresentato nella sua versione originale del 1847 nello stesso Teatro della Pergola, vista l'occasione del duecentesimo anniversario della nascita del Cigno di Busseto e la decisione di eseguire Don Carlo in forma concertistica, ci si sarebbe aspettato il ripristino dell'originale parigino del 1867, o piuttosto una delle tante revisioni successive. Invece si è preferita la più tradizionale versione in cinque atti, senza la riapertura di alcun taglio.
Sul fronte vocale si nota una certa ventata di novità, data dalla presenza di alcuni giovani cantanti e da altri che hanno iniziato ad affrontare da poco questo tipo di repertorio. Il solo Grande Inquisitore di Paata Burchuladze esula dal nuovo contesto e pur portando in scena la sua lunga esperienza, lo spettacolo oratorio non gli è certo di aiuto. Il celebre basso saprebbe rendere un personaggio ancora sorprendente, ma in tale esecuzione l'attenzione è orientata alla vocalità, che purtroppo sta subendo in pieno gli effetti della senescenza.
Massimo Giordano, che già da qualche tempo ha iniziato a frequentare ruoli più spinti, esce vincitore dalla performance fiorentina. La sua esecuzione non è certamente memorabile, ma la tecnica la conosce, sa quel che fa e, pur non possedendo il timbro tradizionalmente affidato a Don Carlo, giunge al termine della lunga vicenda senza segni di stanchezza. Non forza mai, non cerca di appesantire, canta sempre con i suoi mezzi e dimostra di essere un gran professionista. In primo atto è abbastanza piatto e poco prodigo di sfumature, ma col procedere dell'opera riesce a tirar fuori un minimo di colore e di fraseggio. Grazie al suo squillo piacevole, nel terzetto con Eboli e Rodrigo, fa la parte del leone. Il ruolo va certamente tenuto in repertorio, ma occorre che l'interprete faccia attenzione a certe vocali dopo il passaggio all'acuto, che spesso risultano essere troppo aperte.
Kristin Lewis ha dalla sua una bella voce, ma il suo modo di cantare, ben poco italiano, non riesce a prodursi nell'eleganza delle sfumature vocali affidate al personaggio di Elisabetta. Gli elementi necessari ci sono più o meno tutti, dalle salde note di petto agli acuti ben sostenuti, dai filati al canto forte, dall'appoggio alla tenuta dei fiati, ma non riesce a metterli tutti insieme in maniera omogenea, mancando dunque di morbidezza e spesso anche di corposità nella zona centrale. Il alcuni punti sembra addirittura lasciare completamente la scena ai suoi colleghi. Per non parlare della pessima dizione.
Il Filippo II di Dmitry Beloselskiy è invece una bellissima scoperta: bel colore, buon fraseggio, interpretazione intensa, vocalità autorevole, personaggio imponente. Considerando l'eccellente prova di secondo e terzo atto, ci si sarebbe aspettati qualcosa di più in “Ella giammai m'amò!”, in cui non mancano il gusto per l'accento e l'espressività verdiana, ma un miglior uso di piani e pianissimi avrebbe certamente sortito un risultato ancora migliore.
Ekaterina Gubanova possiede un bel colore brunito, ma la sua vocalità non è particolarmente indicata alla tessitura del ruolo di Eboli, dove i centri devono essere corposissimi ed in grado di arrivare ben sostenuti al do alto. Pur prodigandosi in una soddisfacente canzone del velo, presenta qualche difficoltà in talune agilità, nonché segni di infossatura in certe note gravi. Nel terzetto ai giardini della regina sembra addirittura non timbrata e si inizia a notare la sua debolezza nel recitativo.
Gabriele Viviani, certamente più adatto ad altro tipo di repertorio, canta correttamente tutte le pagine affidate a Rodrigo, ma non va molto oltre la lettura dello spartito. Manca di spessore e di conseguenza – dovendo cercar corpo – anche di squillo e di fraseggio, altrimenti notati in ruoli non verdiani. Sono poche le belle frasi in cui riesce a uscire con la pienezza della sua vocalità, come ad esempio in “A me il ferro”.
Alexander Tsymbalyuk è un frate con bel colore e facile negli acuti, apparentemente presi da sotto, ma pur puntando su un volume decisamente notevole, si indebolisce nelle note più gravi.
Laura Giordano è un Tebaldo dalla bella voce chiara, limpida e luminosa; Saverio Fiore è musicalissimo e squillante in Lerma e nell'Araldo; Ekaterina Sadovnikova è delicata e soave nella Voce dal cielo. Buona la prova dei deputati fiamminghi interpretati da Andrea Vincenzo Bonsignore, Gianluca Margheri, Italo Proferisce, Alessandro Calamai, Davide Ruberti, Marco Bussi.
Al termine dello spettacolo di mercoledì 8 maggio, applausi per tutti, tranne qualche piccola disapprovazione per il protagonista, ed ovazioni per Zubin Mehta e i complessi artistici del Maggio.
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