Luci e ombre di un Rigoletto frantumato E' amaro constatare che per portare la lirica in TV, si debba ricorrere a espedienti così impudichi e di fatto respingenti. Quella intuizione che portò a trasmettere la Tosca nei luoghi e nei tempi in cui i fatti ebbero luogo, non aveva senso nella Traviata e ancor minor senso poteva averne nel Rigoletto. Provate a immaginare un genitore cui viene rapita la figlia sotto i suoi occhi bendati, il quale va a riposare e il giorno dopo comincia a cercarla. Provate a immaginare che dopo aver scoperto chi l'ha sedotta e giurando vendetta, va alla ricerca dell'uomo di spada che potrebbe vendicarlo solo dopo aver tranquillamente cenato e forse riposato. Tale frantumazione ha qualcosa di sacrilego, come sacrilego fu il folle gesto di chi colpì con un martello la Pietà di Michelangelo, frantumandone il volto. Questa frantumazione dell'opera tuttavia non è la sola violenza fatta. Un'altra ancora più intollerabile è stata l'affidare la parte di Rigoletto, principe incontrastato del canto per baritono, a una voce di un tenore. Non solo, ma a un tenore ormai settantenne generoso e glorioso ma non più né nella forza, né nell'agilità di dare vita a un personaggio la cui scultura è nella voce come nei gesti. Così il Rigoletto di Placido Domingo non riesce a trasmettere né commozione né emozioni. Sofferto il suo lunghissimo duetto con Gilda al primo atto, in cui la fatica nel respiro e la mancanza di forze, trasmettono invece un languore livido e triste. Eroico forse più che patetico nella tremenda invettiva contro i cortigiani. Cantare "Cortigiani, vil razza dannata.." col furore di un leone braccato e beffato, è ben altra cosa che cantare "Miei signori, perdono, pietà.". Eppure nel canto di Domingo l'invettiva come l'invocazione hanno entrambe la medesima impostazione vocale. Dopo l'immenso sforzo di una scena lunghissima e tenuta allo spasimo, giunge il finale della promessa della tremenda vendetta. Ormai lo sfinimento è totale si che l'acuto, l'ultimo dell'atto, che dovrebbe testimoniare la deliberata volontà di Rigoletto di aver ragione delle invocazioni al perdono della sua povera fanciulla, viene appena accennato e perde tutta la potenza del suo tragico disegno. Povero Rigoletto! Nel quartetto del 3 atto, perfetto per l'equilibrio delle voci, che assieme descrivono il magnifico quadro della libidine sfrontata di un libertino nobile con una moglie per una notte, e l'innocente casto amore di una fanciulla orfana che sedotta dallo stesso crede al cuore e non vede con gli occhi, quadro in cui ogni intensità e sfumatura di colori è dosata con una saggezza somma, la voce tenorile di Domingo ha il medesimo insano senso dei colori scuri e tetri in un quadro soleggiato e senza ombre. C'è l'ultimo, angelico duetto con Gilda morente, con "il dio tremendo.." in cui il tremendo esige un canto che è sgomento, totale abbattimento e definitiva constatazione della sua condanna a essere difforme nel corpo e colpito negli affetti. Ma la fine dell'opera, massacrante per un cantante giovane, per un cantante anziano diventa un respiro appena più profondo e senza alcun significato. Null'altro. Così dopo la morte di Gilda il lancinante grido della Maledizione perennemente incombente, diventa un sospiro di liberazione per la fatica compiuta. Tuttavia la messa in scena televisiva non aveva solo le ombre della frammentazione, dell'infelice scelta di due settantenni, Placido Domingo e Ruggero Raimondi (Sparafucile), ma aveva anche la luce di voci giovani, nel pieno del rigoglio scintillante e di un incanto celestiale: Julia Novikova (Gilda), Vittorio Grigolo (Duca di Mantova), Nino Surguladze, (Maddalena) e Gianfranco Montresor (Monterone). Della prestazione vocale e scenica della Novikova c'è da apprezzare tutto e perdonare tutto, anche qualche errore di fonazione, come nelle doppie dell'esordio di Tutte le feste al tempio . Bella, ricca di sfumature, di piani vellutati, commovente nell'ultima nota in gola quasi fosse già lassù in cielo vicino alla mamma. Elogi, seppure la breve presenza in scena non consente entusiasmi, anche per Nino Surguladze, voce calda, pastosa, sensuale nel duettino col Duca e nel successivo quartetto. Eppure vien da chiedersi perché un soprano e un mezzosoprano non italiane in una produzione tutta italiana? E' assai poco credibile che il panorama italiano non suggerisca artiste capaci di cantare e recitare Gilda o Maddalena, con maestria, credibilità scenica, gioventù e bellezza. Perché non farlo e dare l'opportunità di un palcoscenico immenso, e opportunità di lavoro, a giovani italiane? Diverso e più consolante il versante maschile con Grigolo e Montresor italiani di purissimo sangue. Gianfranco Montresor in possesso di una voce possente, e di una dizione perfetta, ha saputo esprimere nella voce e nel gesto la differente aristocrazia del Conte, nobile, dignitosa, sofferente rispetto a quella libertina e lasciva del Duca. Il suo "la voce mia qual tuono" ha la potenza di un evento naturale, una potenza che si ammorbidisce nella frase "tu che d'un padre ridi al dolor", per riprendere tutta la possanza invettiva nella chiusura del "sii maledetto". L'acuto tremendo della sua voce di basso impregna di tristi presagi tutta l'atmosfera circostante, ponendo fine alla libidinosa e sguaiata festa del Duca. Quella cosmica maledizione per Rigoletto resterà per sempre la sua ossessione e la sua condanna. Elogio e ancora elogi a Montresor anche per l'intensità drammatica con cui avviandosi al carcere esprime la sofferta rassegnazione per la vanità della sua cocente maledizione. Vittorio Grigolo dopo la trionfale Manon a Londra con Anna Netrebko e Antonio Pappano, e il successo al Petruzzelli in Bohéme ha confermato di essere in possesso di una voce seducente e carezzevole, di mezze voci soavi sostenute con abilità e sorvegliata musicalità, rigorosamente guidate verso l'aderenza al testo e alla azione scenica. Perfetto nella credibilità di un giovane nobile innamorato di una oscura fanciulla nel duetto del primo atto nella casa di Rigoletto, perfetto nel duetto con Maddalena, semplicemente magistrale nel canto del terzo atto, "breve sonno dormiam, stanco son io". Una stanchezza recitata con un accenno a uno sbadiglio con cui chiude la frase musicale e si addormenta. Certamente il suo Duca di Mantova è ancora ben lontano dalle insuperate interpretazioni di Alfredo Kraus o di Luciano Pavarotti. Si pensi alla chiusa del duetto con Gilda nel primo atto "vivrà immutabile l'affetto mio per te! Addio!", e alla tremenda cabaletta "Possente amor mi chiama" del secondo atto con cui chiude il recitativo e aria "ella mi fu rapita". Forse avrebbe potuto tentare gli acuti dei due maestri. Ma il rischio era troppo elevato. Forse! Uno spettacolo dunque con luci e ombre, non trionfale ma ben lontano dalla dimensione trash che gli è stata impunemente attribuita. Uno spettacolo che nella sua complessa strutturazione, pone in evidenza l'immensa difficoltà di riuscire a convogliare un pubblico più entusiasta delle Velone e delle veline, che non di quella somma esplorazione dello spirito umano che è l'opera lirica. |