In uno dei cassetti del mondo del canto, è riposta una delle più splendide
favole che l'arte canora abbia mai conosciuto; una storia affascinante quanto
avvincente, alla quale non è mai stato dato un preciso titolo e che fu
archiviata, purtroppo dopo solo pochi anni, con il mero nominativo di “Mario
Lanza: il tenore leggendario”.
In effetti, tra favola e storia, il mito impiega poco a prendere forma, e così
il piccolo Freddy (così lo chiamavano in famiglia), figlio di italiani
emigrati in America, tra un salto nella bottega del padre, e un'imitazione su
quel disco che girava dalla mattina alla sera sul grammofono del nonno, scoprì
che anni addietro, un altro italiano era espatriato negli Stati Uniti in cerca
di popolarità.
“Granny, who is Enrico Caruso?” Chiese una volta il giovane a suo
nonno. “E' un cantante lirico napoletano che ha avuto successo qui in
America, ma tu devi pensare a lavorare Freddy, you have to work! non si vive di
arte; per noi emigranti specialmente, l'America vuol dire lavoro, sudore e
sacrificio, non divertimento! All right?”.
Già, la famiglia di Mario, che era originaria di Filignano un piccolo paese
della provincia di Campobasso, era legata ad una forma mentis di tutt'altra
tendenza, e non incoraggiava affatto il giovane a credere nella sua voce come
mezzo per poter vivere, ma non avevano nemmeno la più pallida idea di ciò che di
lì a poco sarebbe successo, né a quello che nel giro di qualche anno avrebbe
mutato enormemente non solo la loro condizione economica, ma finanche il fato di
dissimili individui in tutto il mondo; nonché l'uso, lo sviluppo e il modo di
concepire il canto lirico.
La natura infatti era stata troppo generosa con il piccolo Freddy, perchè il
possente vigore di quella straordinaria voce non si poteva arrestare solo con un
semplice richiamo; l'infuriarsi delle sue emozioni che bramavano di manifestarsi
con il canto non riuscivano più a trattenerlo dalla voglia di dare fiato alle
portentose corde che la potenza generatrice gli aveva donato; ecco dunque l'
essere che si ribellò agli assetti degli emigranti, con il fuoco che gli ardeva
nel sangue e che aveva bisogno di uscire allo scoperto come se fosse
l'esplosione di un vulcano.
In modo sbagliato? in modo naturale? da autodidatta? non importa, e così la
scuola di canto del giovane italo-americano di Philadelphia iniziò con
l'imitazione dietro ai dischi di quel napoletano che era diventato tanto famoso
proprio al Metropolitan Opera Hause di New York.
“Listen! Senti Freddy come imita Caruso!”, denotava il padre, l'unico
vero appassionato di lirica di tutta la famiglia. ”My God! prima o poi dovrà
scoppiargli la gola! Ma da chi l'ha ereditata tutta quella voce?” rispondeva
il nonno sempre più sbalordito
Freddy così crebbe, e il suo interesse per il canto, seppure all'oscuro di
un'educazione musicale e vocale, prosperò smisuratamente, allorché la sua
irrefrenabile inclinazione, convinse i genitori ad iscriverlo alla Settlement
Music School di Philadelphia per fargli studiare piano e violino.
“Ma siete impazziti? Vostro figlio è dotato di una virtù al di fuori della
normalità e voi vorreste tenerlo chiuso dentro ad una bottega di alimentari a
vendere scatolette di carne?you are crazy!”. Rimproverò Miss Irene
Williams ai genitori di Mario, dopo che quest'ultima gli tenne un'audizione.
“Ma Miss Williams, noi siamo emigranti, gente modesta che ha bisogno di
lavorare, non possiamo permetterci di credere nelle favole: we're poors!”
Replicò la madre di Mario.
“Voi sarete anche gente modesta, ma la mia esperienza da insegnante di canto
mi spinge a rendervi noto la voce di vostro figlio non è affatto modesta e che
può credere anche in una favola. Datemi solo qualche mese di tempo e ve lo
dimostrerò! you have to beleve me please!”. Sentenziò senza esitare la
donna.
Detto fatto, al giovane Freddy gli fu concesso dai suoi familiari di sognare
per qualche periodo, durante il quale, chi di dovere non perse tempo, perché mai
come in quel caso, il tempo significava…denaro? Si, ma non paghe da dilettanti,
bensì milioni e milioni di dollari!
Il debutto a 25 anni in un allestimento di Madama Butterfly, lo mise
ottimamente in luce come giovane promessa della lirica, ma l'esuberanza di
Freddy era nascosta ancora dentro di se, perché oltre alla superba potenza della
sua voce, come definì il Times, fu notata anche quella distinta figura di
bel ragazzo, ideale per i “musicarelli” che negli anni 50 brulicavano nelle case
cinematografiche di tutto il mondo.
Nel contempo così che la voce del giovane tenore iniziò a far vibrare le radio
con canzoni e arie d'opera, i primi Ciak diedero principio sotto la direzione
del celebre produttore cinematografico Louis B. Mayer.
L'esordio al cinema avvenne quindi con “That Midnight Kiss”,
per poi passare a "The Toast of New Orleans"; film nei quali,
oltre che alla simpatia e alla bella forma, Freddy spiegava a polmoni pieni la
sua impressionante tromba tenorile che faceva delirare sia uomini che donne.
Il successo mondiale giunse però con il film biografico proprio di quel tenore
che egli da piccolo trascorreva le giornate intere ad imitare: “The great
Caruso”; opera cinematografica che di lì a poco scatenò un gigantesco
Tzunami in chiave di Business e di imitazione intorno al trent'enne di
Philadelphia.
La leggenda che ruota intorno a questo lungometraggio infatti, recita che
chiunque lo veda, sia poi tentato irrefrenabilmente dal cantare. Diversi
addirittura hanno testimoniato di avere iniziato a studiare canto proprio la
visione del proiezione; lo stesso Tenore Josè Carreras, ammise di essersi
dedicato al canto lirico dopo aver visto “The great Caruso”.
Richieste dagli enti lirici di tutto il mondo così, iniziarono ad affollare
la scrivania del procuratore di Mario Lanza; teatri e impresari, diedero
il via ad una estenuante gara atta al contendersi la voce del Giovane italo
americano nel frattempo che la stampa lo divorava: Il tenore del secolo, la più
bella voce che si sia mai udita, la superba potenza di Mario Lanza, Mario
Lanza l'idolo delle giovanissime, l'unico vero erede di Caruso, la voce
dell'America nel mondo, il tenore che fa vibrare i vetri... e tantissime altre
locuzioni riempivano quotidianamente le pagine dei giornali, iniziando a
scrivere le prime righe della legenda: il mito dei ragazzi e delle ragazze che
impazzivano per lui, il mito degli emigranti, il mito delle mamme; il mito dei
vociomani, il mito di tutti, e da tale tempesta, migliaia e migliaia di dollari
iniziarono a piovere sulla testa della famiglia Cocozza di Filignano, mutando
enormemente le loro condizioni di umili bottegai.
Ma perché Mario Lanza ebbe un così enorme successo? Cos'aveva di così
particolare questo cantante che lo rese uno degli artisti più noti di tutti i
tempi?
Appendendo per un istante al cappio la dea bendata senza la quale tutti ben
sanno che il successo è presso a poco impossibile, le virtù di Lanza ne
erano in realtà più di una, e grazie ad un perfetto sincronismo, ne venne fuori
ciò che da allora in poi non si è mai più ripetuto in tali proporzioni nei
riguardi di una voce di tenore.
Prima virtù fra tutte, ovviamente, la sua voce, e analizzandola nel dettaglio,
il primo aspetto importantissimo di tale voce era il timbro.
La voce del tenore Mario Lanza era, infatti, dotata di un particolare
timbro chiaro e tagliente, particolarmente adeguato per il repertorio lirico, ma
oltremodo conforme per le canzoni americane con le quali egli ebbe ancor più
successo (ciò sarà impreso anche da Franco Corelli negli anni sessanta, ma
purtroppo non con lo stesso successo, forse, proprio perché il tenore italiano
aveva voce molto più scura e poco confacente al repertorio dei motivi
americani).
Grazie indubbiamente anche ai suoi film, Mario Lanza dunque improntò
tenacemente la sua fiammeggiante vena di esecutore di canzoni americane dalle
forti tinte passionali: chi dimenticherà mai le celebri Because? Oppure
Be My love, o ancora With a song in my heart, Because your mine e
tantissime altre ancora che raccontavano le gioie, le speranze e l' esuberanza
dell'america negli anni 50.
Secondo rilevante aspetto, al timbro chiaro, si univa un corpo vocale molto
robusto e non assolutamente leggero come si verifica di solito per le voci
luminose: Mario Lanza, era di fatto provvisto anche dei gravi del
baritono e tali erano eseguiti con una sonorità da far invidia alle più potenti
delle voci medie; (scendeva senza problemi al LAb grave dei baritoni!); ciò gli
permise di giocarsi un'altra carta vincente con grande successo: quella del
repertorio drammatico operistico: oltre infatti ad essere stato nei suoi recital
un grande esecutore di “Vesti la giubba”, “Celeste Aida” e altre
illustri arie del repertorio lirico ottocentesco, si è fidato di cantare
l'impervio Otello di Verdi a soli 33 Anni! Altra impresa ardita
quanto rara per un tenore, sebbene di natura stentorea (e per tenore stentoreo
non si intende certo un tenore “stentato” come asseriva forsennatamente un tal
esperto rossiniano, insegnante di canto al conservatorio di Benevento..).
Proseguendo ancora con i caratteristici aspetti di questa singolare voce;
alle peculiarità del timbro chiaro e del robusto corpo vocale, che gli
permetteva di eseguire ottimamente anche i chiaro scuri, si incatenava in modo
sublime ad un'incredibile estensione di registro, che partendo da note molto
basse, raggiungeva senza problemi il RE4: Mario Lanza, aveva dunque
un'estensione vocale pari a due ottave e mezza, il che gli diede licenza di
aprirsi un altro percorso vittorioso quanto esclusivo: la diversificazione di
esecuzione; il più delle volte infatti, il tenore eseguiva le sue canzoni almeno
un semitono più acuto rispetto alla tonalità originali.
Che se ne sappia, infatti, è stato l'unico tenore della storia a registrare
la titanica Granada, nella sovrumana tonalità di RE min., e se qualche
tenore leggero in questo momento sta pensando che è ben in grado di piazzare 9
Do di petto uno dietro l'altro, in questo caso vige la regola di timbro e corpo
vocale paritario; tendo a precisare che in questo scritto, per registrazione si
intende un'esecuzione registrata dall'inizio alla fine in un tempo totale di tre
minuti e 45 secondi, non un brano registrato una frase alla volta per via di
scompensi respiratori, perché questo lo sappiamo fare tutti.
Provate invece a cantare Granada in RE min. dall'inizio alla fine
senza mai fermarvi, con le stesse corone che eseguiva il tenore di Philadelphia
e con il Do 4 finale, vi accorgerete dello scherzo della natura del quale
Mario Lanza ne fu padrone.
Ultimo importante aspetto, si fa per dire, erano gli accenti vocali, che
specialmente negli acuti divampavano con particolare impeto da autentico tenore
eroico, donando alla linea sonora quel furore che ardeva la pelle di chi lo
ascoltava.
Ma questa voce così prodigiosa, era veramente così perfetta? No.
“Caro Antonio, ascoltai per la prima volta Mario Lanza a Milano nel 55 in
occasione di una suo tour in Italia. Nelle prime arie che cantava, era
un'autentica potenza della natura: al suono dei suoi impressionanti acuti, in
teatro tremava tutto, aveva una voce di eccezionale impetuosità che affascinava
in modo travolgente; ma dopo le prime quatto o cinque romanze, la fibra vocale
iniziava a palesare un declino di potenza e squillo, fino a giungere ad una
quasi totale assenza di suono dopo la prima mezz'oretta di recital!”
Tale ricordo, mi fu raccontato da uno dei miei amici romani, melomane sfegatato
che, negli anni '50 appunto, ebbe la fortuna di assistere ad un recital di Lanza
a Milano.
Già, la voce del fenomeno di Philadelphia era un'arma a doppio taglio: il tenore
soffriva infatti di malmenage vocale, e di critici che gli hanno puntato
il dito contro per questa sua imperfezione, non ne sono certo mancati.
“Mario Lanza non ha tecnica, Mario Lanza non sa cantare, Mario Lanza non è un
tenore d'opera, Mario Lanza il finto tenore…” diverse spade cominciarono
così a volgere la loro lama nei confronti dell'artista, iniziando un vero e
proprio processo all'intenzione, l'intenzione di un tenore che si era dato al
cinema e alle canzoni perché non riusciva a sostenere vocalmente un'opera,
l'intenzione di una voce che sprigionava la sua colossale potenza in brevi
componimenti perché ciò non era in grado di farlo per due ore su di un
palcoscenico operistico.
Sta di fatto che, però, il portento italo-americano era ovunque accolto come un
dio; il dio della passione in canto, del vigore in voce e della gioventù nel suo
smagliante sorriso.
Mario Lanza è morto perché si drogava? Perché lo hanno ucciso? Perché si è
suicidato? Per embolia?
Forse l'ultima ipotesi è quella che tutti abbiamo preferito, ma tutti coloro che
hanno creduto in questo mito, tale da denominarlo come “Il tenore Leggendario”,
sanno che nulla di tutto questo è successo, perché in realtà Mario Lanza
è stato una stella caduta sulla terra, è brillata il tempo giusto da cambiare il
modo di concepire il canto e se ne andato via, forse su di un altro pianeta, ove
anche lì, cantando anche semplicemente “A' vucchella” fa venire la voglia
di cantare anche alle pietre; perché la grandezza di questo tenore consisteva
proprio nell'infondere la gioia e la voglia di cantare per raggiungere
l'obiettivo più arduo dell'essere umano: la felicità.
Mario Lanza è stato uno dei pochissimi artisti che veramente ha saputo
infondere nel suo prossimo tale principio. Null'altro.
Antonio Guida
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